Religione-Filosofia-Storia

Jean Guitton ed el Modernismo nel Concilio Vaticano II: Parere di Brescia
Istituto Paolo VI di Brescia, Italia

Parere del' Istituto Paolo VI di Brescia (Italia)

 

Trascriviamo sotto il "Parere" del' Istituto Paolo VI di Brescia (Italia), riferente alla grave confessione di Jean Guitton: "Il Concilio Vaticano II ha introdotto nella Chiesa il metodo e la dottrina del Modernismo, condannato da San Pio X".
La risposta ed il "Parere" del' Istituto Paolo VI di Brescia":
----- Original Message -----
From: "Lino Albertelli"
To: Marcelo Fedeli
Sent: Monday, December 02, 2002 11:14 AM
Subject: risposta
Brescia, 3 dicembre 2002
Egregio
Sig. MARCELO FEDELI
S. Paulo
(Brasile)
La preghiamo di scusare il ritardo con il quale rispondiamo alla Sua dell'11 ottobre scorso, ma abbiamo voluto adeguatamente approfondire la delicata questione da Lei sottopostaci riguardo ad una considerazione di Jean Guitton sul presunto carattere modernista del Concilio Vaticano II.
 
Siamo ora in grado di allegarLe un parere ragionato di un teologo sulla questione da Lei posta. Confidiamo che possa soddisfare le Sue esigenze di chiarezza.
Con distinto ossequio 
La Segreteria Generale
(Dott. Renato Papetti)
 
Allegato al e-mail sopra:
PARERE DI UN TEOLOGO DEL “ISTITUTO PAOLO VI DI BRESCIA”:
 
Quando si parla di modernismo è bene fare una sostanziale distinzione tra la teoria filosofica e teologico-biblica di cui noi ci occuperemo ed il concetto di modernità inteso come fatto socio culturale che spesso viene frainteso con la prima teoria.
 
1. Teoria filosofica e teologico biblica
 
Una adeguata ricostruzione del «modernismo» dovrebbe svolgersi in diverse epoche, non escludendo la crisi provocata dall'aristotelismo nel XIII secolo, sino a giungere alle teorie di Loisy e Buonaiuti.
 
Il termine «modernismo» è stato coniato dallo stesso documento di S. Pio X «Pascendi», il cui sottotitolo è: «De modernistarum  Doctrinis».
 
Le tesi che vengono condannate sono quelle di Loisy, espresse sia nel «petit livre rouge», cioè »L'evangile et l'Église» del 1902 e nel secondo «petit livre rouge». Già il 17 gennaio 1903 l'arcivescovo di Parigi, card. Richard, censurava l'opera di Loisy. Le teorie «moderniste» che giustamente preoccupano il Magistero erano legate al campo dell'interpretazione biblica.
 
Loisy infatti fa sue le tesi di Harnach del metodo storico-critico nell'approccio alla scrittura e allo stesso «Depositum Fidei» con tutto ciò che ne consegue.
 
Diversa è l'Opera di P.G. Lagrange, che, contemporaneo di Loisy, anche egli si accosta alla Scrittura con metodo anche scientifico, ma considera la Bibbia quale sinergia antropo-divina.
 
Fonderà a Parigi la «Revue Biblique» alla quale Loisy contrapporrà la pubblicazione «L'Enseignement biblique», che non avrà lunga durata.
 
Papa Leone XIII (16 novembre 1893) promulga il documento «Provvidentissimus Deus» dove P. Lagrange vede approvato il suo metodo di esegeta, che coniuga fede e critica, dove l'ispirazione divina e la conoscenza dell'autore sacro non si escludono: «Dio insegna in modo infallibile solamente ciò che l'autore sacro insegna, questo è il principio tradizionale dell'esegesi. Poi possediamo il principio del buon senso: l'autore sacro insegna solo ciò che vuole insegnare. Possediamo il principio della critica letteraria: l'autore si manifesta nel genere che ha scelto. Non ci resta altro da fare che confrontarli con un ultimo principio di logica non meno elementare: il termine non contiene né la verità né l'errore, in quanto sia l'una che l'altro nascono nel momento in cui si dà un giudizio, cioè un'affermazione o una negazione categorica. E non vi è giudizio categorico se non quando l'autore vuole pronunciarlo».[1]
 
Con questo criterio P. Lagrange, tenendo conto del principio dell'ispirazione divina, da una parte ed il principio di strumentalità dell'autore dall'altra, era convinto di riuscire ad evitare il conflitto deletrio tra fede e scienza.
 
Papa Leone XIII, proprio per questo modo di avvicinarsi alla Scrittura istituendo la Pontificia Commissione Biblica, annovererà anche P. Lagrange (1902).
 
P. Lagrange a sua volta verrà diffidato nel 1912 da S. Pio X con una lettera della Congregazione Concistoriale per la sua posizione circa l'origine mosaica del Pentateuco da lui espressa e sostenuta al IV Congresso Scientifico Internazionale dei Cattolici di Friburgo, nell'agosto 1897.
 
 
2. «Modernismo» del Concilio Vaticano II
 
Certo il Concilio Vaticano II si è occupato, come poteva non farlo, dei gravi e grandi problemi dell'umanità che impoveriscono e minacciano la retta coscienza, che permette alle persone di riconoscere il bene dal male e agire di conseguenza, secondo i dettami della fede e della dignità dell'uomo, immagine e somiglianza di Dio per identità e vocazione.
 
Questa è l'attenzione che troviamo nella costituzione pastorale Gaudium et Spes di stile squisitamente evangelico e che spesso viene accusata di modernismo. Ma, come abbiamo presentato il modernismo stigmatizzato dalla Pascendi, il Concilio Vaticano II nella costituzione dogmatica Dei Verbum è su tutt'altra posizione, tanto da offrire alla Parola di Dio il primato nella Chiesa.
Vi è palese ignoranza e malafede in chi vede connivenza tra la dottrina del Vaticano II circa la Rivelazione e la tesi che sta a fondamento del modernismo, che è la teoria storico-critica.
 
Ci premuriamo pertanto di offrire la nostra riflessione teologica sul rinnovato concetto di Rivelazione, presentato nella Dei Verbum, che va in direzione nettamente opposta alla concezione modernista.
 
Il rinnovato concetto di rivelazione
 
Per comprendere il rinnovato concetto di rivelazione del Vaticano II, è necessario confrontare brevemente la prospettiva del Vaticano I e del Vaticano II dal punto di vista storico e teologico.
 
Sotto il profilo storico-culturale, è noto che la prospettiva e il contesto epocale dei due Concili sono radicalmente diversi. Il contesto storico-culturale in cui scaturisce la formulazione della dottrina della rivelazione nel Vaticano I è determinato da una profonda frattura tra pensiero cristiano e pensiero moderno. La problematica sulla rivelazione e sul rapporto fede e ragione è fortemente condizionata dalle tendenze tradizionaliste e razionaliste, contro le quali si pone la dottrina del Concilio. L'intenzione ultima è la condanna degli errori del tempo e il clima è determinato dal fatto che la Chiesa si sentiva come assediata dagli avversari. Questa situazione polemica influì anche sulla teologia ufficiale degli anni successivi, la quale si preoccupò di difendere la verità di fede dagli errori, accumulando però contemporaneamente un grosso ritardo culturale, a causa dell'irrigidimento e della cristallizzazione delle formule teologiche.
 
Il contesto storico-culturale del Vaticano II è certamente diverso: la Chiesa non intende proclamare dogmi specifici né pronunciarsi contro posizioni ereticali, ma si propone di iniziare un dialogo con il mondo moderno. La Chiesa, uscendo allo scoperto, vuole ripensare il patrimonio della fede, globalmente considerato, e presentarlo in un modo accessibile alla civiltà contemporanea e in una maniera che interpelli efficacemente la condizione esistenziale dell'uomo d'oggi.
 
Il Vaticano II nasce da un periodo di riflessione teologica e di ripensamento ecclesiale più tranquillo e soprattutto più creativo e si propone non tanto di difendere, quanto di esporre la dottrina della Chiesa, mostrandone la sua organicità, la sua rilevanza esistenziale e la sua attualità pastorale.
 
Sotto il profilo dottrinale, si può riassumere il pensiero conciliare sul concetto di rivelazione nei seguenti tratti:
a) Il cammino che la nozione ha compiuto nella coscienza della Chiesa è solita­tamente misurato e concisamente espresso dicendo che si è attuato il passaggio da una concezione intellettualistica ad una concezione storico-salvifica personalistica della rivelazione.
La concezione intellettualistica intende la rivelazione divina come comunicazione di verità da parte di Dio all'intelletto umano, sostenuto dalla libertà e illuminato dalla grazia.
 
La concezione storico-salvifica intende la rivelazione come auto-manifestazione di Dio stesso alla e nella storia dell'uomo, mediante la missione di Gesù e dello Spirito.[2]
 
Non c'è evidentemente opposizione tra le due concezioni, poiché la seconda non esclude, ma integra la prima. L'autorivelazione di Dio infatti implica anche una comunicazione di verità a livello intellettuale e riconoscibile dal punto di vista poetico.
 
E tuttavia esiste anche una diversità tra le due prospettive. La seconda supera la prima, perché i termini dell'evento della rivelazione non sono più le verità da una parte e l'intelletto umano dall'altra, ma sono da un lato Dio liberamente e gratuitamente presente nella storia di Gesù e dello Spirito donato da Gesù, e d'altro lato l'uomo come colui che è chiamato a vivere liberamente la sua storia come storia dello Spirito, che fa memoria della storia e dell'evento escatologico di Cristo.
 
b) Una seconda e fondamentale nota teologica del rinnovato concetto di rivelazione è la centralità accordata al mistero di Cristo. Gesù Cristo è la pienezza e il compimento della rivelazione di Dio. Di conseguenza si afferma una prospettiva decisamente personalistica della rivelazione[3].
 
c) Inoltre, il cristocentrismo della rivelazione permette di intendere meglio l'unità e la distinzione tra creazione e rivelazione. L'unità è data dal fatto che la creazione trova la sua verità nel Verbo Incarnato. Cristo è quindi il senso pieno della creazione. La distinzione viene descritta mediante un superamento o un'eccedenza qualitativa della novità dell'evento Cristo rispetto all'orizzonte della storia universale[4]. La conseguenza di questa impostazione è che una riflessione teologica sul senso della storia deve partire dall'evento-Cristo, che diventa principio ermeneutico della storia universale.
 
d) Infine, si afferma la dimensione sacramentale della rivelazione[5]. La rivelazione di Dio avviene mediante i fatti e mediante le parole (Facta et Verba). Essa, descritta come un'iniziativa di Dio che ha come oggetto e principio la sua stessa persona, è avvenuta mediante alcuni interventi di Dio stesso orientati all'unico fine, che è il dono della salvezza. Questo ordine di avvenimenti e interventi viene denominato con il termine di «economia» (economia storico-salvifica). Scaturisce a questo punto la dimensione sacramentale, poiché il pieno significato dei gesti ci risulta solo attraverso le parole, cioè la locutio Dei, che, a sua volta, in Cristo Gesù, è avvenimento storico concreto.
 
e) Dopo aver svolto il discorso sulla rivelazione come azione di Dio, viene illustrato l'oggetto della rivelazione. Esso è la Parola di Dio, mediante la quale siamo illuminati sulla verità di Dio e sulla salvezza dell'uomo. E poiché la Parola di Dio si è fatta carne, questa verità non si esaurisce nell'ordine intellettuale, ma esige che in Cristo sia attuata mediante la comunione di vita con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L'oggetto della rivelazione è quindi una vera comunione interpersonale tra l'uomo e la Santissima Trinità.
A conclusione di questa sintetica presentazione delle caratteristiche teologiche del tema della rivelazione, si comprende facilmente che la prospettiva conciliare mostra un imprescindibile interesse per l'antropologia e per la storia in cui si attua l'esistenza umana. Di conseguenza, il nuovo concetto di rivelazione sblocca l'indifferenza della teologia per le diverse visioni della cultura e le comunica un interesse tanto più appassionato e quasi ansioso, quanto più era stata inerte la precendente indifferenza da parte della teologia manualistica e neo-scolastica.
 
Si tratta di una svolta del metodo teologico, ma non certo in direzione dei criteri del modernismo.   

 
[1] M.J. Lagrange. L'inspiration et les exigences de la critique, in RB.5 (1896) p. 507.
[2] Nella Costituzione dogmatica Dei Filius del Vaticano I, il fine della Rivelazione è la partecipazione alla conoscenza divina, e di conseguenza la priorità è data alla sapienza: «Placuisse eius sapientiae et bonitati...revelare» (DS 3004). Nella Dei Verbum si afferma invece: «Placuit Deo in sua bonitate et sapientia seipsum revelare» (DV 2). Non si tratta di contrapposizioni, ma di accentuazioni diverse nel modo di compendere la dinamica e il processo di rivelazione.
[3] Nella Costituzione Dei Filius si osserva una presenza quasi tangenziale della figura di Cristo in ordine al tema della rivelazione. Essa è presente, ma è vista sostanzialmente in un compito «strumentale» in riferimento all'azione di Dio che è quella di manifestare il complesso delle verità divine e soprannaturali. Nella Dei Verbum il ruolo dell'Incarnazione acquista invece una dimensione decisiva per illuminare il senso della rivelazione di Dio.
[4] «La profonda verità, sia di Dio sia della salvezza degli uomini, ... risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione» (DV 2). E ancora «Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo, offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (Cfr. Rm 1,19-20), e volendo aprire la via della soprannaturale salvezza, al di sopra di questo (insuper) manifestò se stesso ai progenitori» (DV 3).

    Para citar este texto:
"Jean Guitton ed el Modernismo nel Concilio Vaticano II: Parere di Brescia"
MONTFORT Associação Cultural
http://www.montfort.org.br/ita/cadernos/religiao/vaticano2a/
Online, 21/12/2024 às 14:00:17h